Un dato che la pandemia ha evidenziato agli esordi è che i migranti che s’infettavano erano un numero statisticamente rilevante rispetto ai nativi dei paesi occidentali. Allora non c’era nessun vaccino che evitasse l’escalation dei casi gravi e dei decessi, e sia i tamponi sia i presidi medicali di protezione scarseggiavano. Non stiamo parlando di quegli sventurati che sbarcavano in Italia e nel resto d’Europa, oppure che cercavano di varcare i confini fra USA e Centro-America in quel periodo, dimostrando che la loro disperazione era superiore al timore del contagio dilagante in Europa e negli USA di Trump, l’ex-presidente tanto brutale nei respingimenti quanto negazionista del Covid. No, stiamo parlando di quelli già inseriti nei rispettivi paesi in cui si sono costruiti una seconda vita da anni, grazie a un lavoro stabile, ai figli che vanno a scuola ecc. Questa popolazione, messa a confronto con quella dei nativi, s’è ammalata di più di Covid-19. Tre sono i fattori di questa recrudescenza, a parere degli autori di un commento apparso a novembre di quest’anno sulla rivista «Nature Reviews Cardiology». Comparati con i nativi, questi migranti stabili devono fare i conti con un tasso di povertà maggiore, con lavori nei quali mantenere la distanza fisica è difficile, forse impossibile. Qualcuno ricorderà lo scandalo sollevato dalla stampa USA per i tanti lavoratori positivi al Covid tra gli operai delle grandi corporation che trattano il pollame o la carne bovina destinata agli hamburger. Ebbene, questi lavoratori erano e sono, nella quasi totalità dei casi, appartenenti alla minoranza di colore o a quella ispanica di più recente integrazione. Lo stesso è accaduto in Italia nel settore della logistica che ha subito rallentamenti, dove gli immigrati che vi lavorano sono tanti, e tanti quelli che si sono ammalati di Covid.
Il terzo e ultimo fattore che gli autori dello studio menzionano è quello che ad accelerare morbilità e mortalità del Covid sono subentrate le precarie condizioni cardiovascolari di questi migranti stabili. La spiegazione che tentano i due ricercatori olandesi che firmano lo scritto è quella di ricordare che la migrazione ha generalmente effetti avversi sulla salute. In particolare, vede aumentare il numero dei pazienti con fattori di rischio cardiovascolare e metabolico, elevando così il pericolo di malattie concomitanti: infarto, ictus e diabete. Ecco, per esempio, cosa scrivono in merito all’immigrazione olandese. Nei Paesi Bassi, il tasso di mortalità per malattie cardiovascolari (CVD) è più alta fra i migranti provenienti dal Suriname, una ex colonia olandese, oggi una minuscola repubblica dell’America del Sud, rispetto ai nativi olandesi ma niente in confronto a quello che si registra fra gli immigrati di origine nord-africana («migrants from Morocco»), nei quali il tasso d’incidenza per queste malattie è, all’opposto, inferiore del 50%. Nella vicina Spagna accade qualcosa di non molto diverso. I migranti hanno maggiori probabilità di essere diagnosticati per CVD rispetto agli spagnoli da generazioni, tuttavia in Spagna la mortalità più alta per CVD si registra fra i migranti provenienti dall’Asia, dai Caraibi e dall’Africa Sub-Sahariana, ma è più bassa in chi arriva da Nord-Africa e Sud-America, più bassa ancora di quella degli spagnoli da generazioni. Come si spiega questo diverso andamento delle CVD fra i migranti, comprese le differenze fra i diversi gruppi etnici? Una prima spiegazione che gli autori rintracciano è che l’andamento delle malattie cardiovascolari può variare a seconda del grado di integrazione dei migranti nella nazione di nuova acquisizione, laddove il tenore di vita, l’accesso alle cure mediche e ai check-up di controllo diventano fondamentali.
A questo proposito, fanno un esempio dirimente. Quello dei cinesi emigrati nei Paesi Bassi rispetto a quelli emigrati in Svezia. In Olanda, il gruppo etnico si distingue per un rischio di ictus inferiore a quello dei nativi olandesi. In Svezia, al contrario, i cinesi hanno un’incidenza di “stroke” maggiore degli svedesi. «Queste differenze potrebbero essere dovute, in parte all’effetto di adeguamento migratorio (lo stato di salute della popolazione ospitante nel paese di insediamento è cruciale per la salute dei migranti, dato che sono le popolazioni di riferimento a cui le popolazioni migranti vengono confrontate) o all’esposizione differente ai fattori di rischio specifici del paese». Nel secondo caso, seguendo il filo del discorso dello studio citato, significa che l’organismo del migrante reagisce come può allo stile di vita al quale deve adattarsi, dai fattori epigenetici di nuovo conio (ovvero, tutto quello che, a livello genetico, si va a modificare in conseguenza dell’nuovo habitat) alle reazioni avverse a livello di microbiota intestinale: laddove i cibi vengono trasformati in nutrienti, più o meno benefici o dannosi per l’organismo.
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