29-04-2020
Dobbiamo capire quali sono i driver che hanno aiutato il virus a fare disastri in alcune zone del Paese. Per farlo abbiamo bisogno di tantissime informazioni, ha twittato la virologa Ilaria Capua all’indomani del programma tivù “Dì Martedì” del 28 aprile scorso, a ricordare che la scienza non tralascia nessuna ipotesi ma approva soltanto quelle corroborate dai fatti. Il contrario o quasi di quello che è successo con le news sul ruolo dell’inquinamento nella diffusione del virus.
Si sa che nella fretta dell’emergenza Covid-19 si accelera su tutto, anche nelle pubblicazioni di studi scientifici privi dei necessari controlli. Succede quando i report vengono diffusi sotto forma pre-print prima cioè che siano stati sottoposti alla revisione fra pari (peer-review). Secondo i redattori di “Scienza in rete” è quello che è successo con un lavoro firmato da ricercatori dell’università di Harvard, USA (Xiao Wu, 2020), al quale ha fatto eco un paper della Società Italiana di Medicina Ambientale. Entrambi i lavori sposano la tesi di un ruolo attivo dell’inquinamento dell’aria nella diffusione del virus. Se è vero che le molecole di PM sono in grado di trasportare e diffondere nell’etere diverse particelle biologiche, «appare poco plausibile che i Coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outodoor», sottolineano i critici. Il riferimento geografico per l’Italia è ovviamente la Pianura Padana, una delle aree più inquinate d’Europa, nelle cui regioni Piemonte-Lombardia-Emilia-Romagna e Veneto si sono registrati i tassi più alti di contagio e mortalità da Covid-19. Sennonché il distretto industriale in oggetto è anche il luogo di maggior scambio e comunicazione commerciale del Paese, ragione per cui è impossibile prescindere dalla nutrita presenza di soggetti che vi confluiscono da ogni parte del pianeta, Cina compresa. In relazione alla diffusione del contagio, vanno considerati gli altri fattori di cui è certo che hanno agito da concausa, tipo il disastro sanitario che è avvenuto nelle RSA e gli altri errori umani nella gestione politica e sanitaria dell’epidemia. «I driver sono che i medici infetti li hanno costretti a lavorare – si legge in risposta al twitt della Capua – Per non dire del resto del personale». E ancora: «Era sufficiente evitare gli assembramenti negli ospedali dove erano ricoverati i contagiati a cui non era stato fatto il tampone perché si pensava che il virus in Italia non sarebbe mai arrivato».
Va poi precisato che durante il lockdown iniziato il 10 di marzo in Italia vi è stata un netta riduzione degli inquinanti a causa della chiusura di molte fabbriche e al drastico calo di spostamenti delle persone e di movimentazione delle merci che ne è conseguito lungo tutte le arterie di comunicazione della zona. Un dato di fatto che contrasta con la diffusione del virus per mezzo dei valori di PM nell’aria. Quindi, più che una causa diretta della propalazione del coronavirus, l’inquinamento dell’aria va posto sul banco degli imputati per le implicazioni che già favorisce in termini di malattie polmonari e cardiovascolari. Malattie che, come sappiamo, rappresentano il terreno più fertile per i danni primari che il Covid-19 arreca all’organismo e che vanno valutate, al pari di altre comorbilità, insieme a gli altri fattori che completano il quadro clinico di ogni paziente, tra i quali l’età, il genere e le condizioni socio-economiche. Quanto al contagio diretto del virus, non c’è ragione di discostarsi dalla tesi delle particelle di droplet salivare che le persone si scambiano attraverso i contatti ravvicinati, tesi per la quale, per ora, la prova è certa.
E l’inquinamento dell’acqua? Tracce dell’RNA del virus sono state trovate nelle acque fognarie. Ma neppure in questo caso si parla di un virus attivo, in grado di contagiare. Sia in Italia che altrove si sono mappate le acque di alcuni centri urbani per avere la prova della diffusione del virus nella popolazione ivi residente. Secondo un studio commissionato dall’ Istituto Superiore di Sanità «il processo che comprende la potabilizzazione delle acque, dei sistemi di fognatura e depurazione è certamente sicuro e controllato rispetto alla diffusione del virus come anche di altri patogeni». Fatto sta che il risultato di queste indagini, a parere del presidente dell’ISS Silvio Brusaferro, potrebbe essere d’aiuto nel controllo della pandemia. Tuttavia, per essere ancora più sicuri, non solo le acque di scolo ma anche quelle dei fiumi e dei laghi, le stesse che vengono utilizzate nei processi di irrigazione e quindi entrano a fare parte della catena alimentare, meriterebbero un controllo più approfondito in rapporto alla temuta presenza del virus. Stando al report “Buone e cattive acque” che Legambiente ha redatto nel 2019 scopriamo che non tutti i depuratori funzionano come dovrebbero, che ci sono ancora zone che ne sono sprovviste e che per questa ragione l’Italia rischia un procedimento d’infrazione della UE. «In base ai monitoraggi più aggiornati – scrive Andrea Minutolo, coordinatore dell’ufficio scientifico di Legambiente – solo il 43% dei 7494 fiumi della Penisola sono in “buono o elevato stato ecologico”, il 41% al di sotto dell’obiettivo di qualità e ben il 16% non ancora classificato. Ancora più grave la situazione dei laghi, di cui solo il 20% è a norma mentre il 41% non è stato ancora classificato».
Bene, allora l’ultima parola alla scienza che non fa sconti di sorta, nella speranza che nulla di ciò che merita di essere vagliato rimanga intentato e che tutto ciò che finisce sotto le lenti dei sofisticati strumenti di laboratorio venga rivisto da chi di competenze prima di essere approvato e proposto all’attenzione di tutti.