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Per sconfiggere ansia e depressione non c’è niente di meglio che andare a correre. Pare infatti che per molti, certo non per tutti, la corsa sia in grado di raggiungere gli stessi effetti terapeutici dei trattamenti farmacologici mirati. Lo afferma da ultimo lo studio MOTAR (The Mood Treatment with Antidepressant or Running) una ricerca apparsa nel 2023 su una rivista specializzata («Journal of Affective Disorders»). I ricercatori di due università olandesi che l’hanno messa a punto, per fare chiarezza sui benefici della corsa, hanno arruolato 141 pazienti (età media 38,2 anni di cui il 58,2% donne) affetti chi da depressione e chi da ansia e poi li hanno suddivisi in due gruppi. Ai membri del primo gruppo, o gruppo d’intervento, sono state proposte 16 settimane di corsa a cadenza bi- o trisettimanale, a seconda delle preferenze di ognuno. Il running all’aria aperta prevedeva 10 minuti di riscaldamento, seguito da mezz’ora di corsa a passo più intenso, in ossequio alla tempistica che una condivisa scala di valutazione dell’attività fisica in rapporto al benessere mentale ha definito per la corsa outdoor. All’opposto, al gruppo di controllo, è stato offerto un farmaco che agendo sui recettori della serotonina è in grado di portare a dei risultati concreti in termini di buonumore e tranquillità psicofisica. Anche nel secondo caso 16 settimane è il tempo stimato per la guarigione clinica. E così, dopo 16 settimane di trattamento, il 43,3 dei pazienti che si sono messi a correre sono guariti chi dall’ansia chi dalla depressione. Una percentuale del tutto sovrapponile ai guariti grazie ai farmaci, che è stata del 44,8%. Ma non è tutto qui. Il gruppo di intervento, grazie alla corsa, ha migliorato sensibilmente alcuni parametri cardiovascolari e metabolici. Fra i podisti s’è registrato un sensibile calo ponderale (P = 0,001), del girovita (P = 0,011), della pressione arteriosa sia sistolica che diastolica (P = 0,011 e P = 0,002, rispettivamente), della frequenza cardiaca (P = 0,033) e della variabilità di quest’ultima (P = 0,006). Per chi aveva scelto di correre, a inizio trattamento non sono mancati i consigli su come inframmezzare la corsa alla vita quotidiana, con particolare interesse verso i pasti da preferire, i cibi da evitare, le modalità di riposo ecc. Insomma, tutti i buoni consigli ormai derubricati sotto la voce stile di vita. Possiamo quindi affermare che la corsa come attività proattiva contro certi disturbi della personalità raggiunge i suoi obiettivi non senza l’aiuto di uno stile di vita più sano, dove anche guardarsi allo specchio e scoprirsi dimagriti ha il suo perché. Tutte cose, queste, che il farmaco che intercetta il recettore della serotonina non è in grado di fare. Anzi, la letteratura in materia di farmaci antidepressivi è costellata da episodi prolungati di apatia e insofferenza verso la vita attiva che talora permangono anche in presenza di miglioramenti accertati a livello mentale.
Quello che, tuttavia, alcuni osservatori hanno ritenuto di commentare è che, per quanto positiva la corsa sia a livello mentale e cardiovascolare, non bisogna considerarla come un’alternativa ai farmaci e soprattutto che lo sia per tutti. Basti pensare alle persone che non sono in grado di praticarla, o che semplicemente non hanno voglia di farla perché, appunto, sono depresse o immotivate a fare qualsiasi movimento. Per costoro non esiste che la terapia farmacologica e la psicoterapia come possibili soluzioni.
O forse la soluzione sta nel mezzo. È verosimile che affiancare la corsa alla terapia farmacologica potrebbe essere il giusto compromesso, visto che entrambi questi approcci alla depressione sortiscono gli stessi effetti positivi, cosa che per altro questo studio conferma.
A proposito di esso, un limite riconosciuto dagli stessi autori, oltre a quello del numero troppo esiguo dei partecipanti, è che agli arruolati è stato chiesto di scegliere a quale gruppo volessero prendere parte. Solo gli indecisi sono stati assegnati in maniera casuale chi alla corsa chi alla terapia farmacologica. Quindi l’assegnazione del gruppo non è stata random ma in buona parte pilotata dalle inclinazioni dei singoli. Un fatto, questo, che da un punto di vista del metodo scientifico di arruolamento dei candidati non è proprio quello di un esempio di specchiata “doppia cecità” secondo la quale né il medico né il paziente conoscono l’anagrafica dei due bracci d’intervento fino alle battute finali dell’indagine clinica.

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