Tra i problemi che l’epidemia di Covid-19 ha reso drammaticamente attuali c’è quello dell’informazione posseduta dai pazienti sulle questioni mediche, e quello – strettamente connesso – di come le decisioni sulle terapie da intraprendere possano essere condivise tra i pazienti stessi e gli operatori sanitari.
Si tratta di una problematica delicata e complessa, perché qualsiasi decisione venga presa riguardo alla salute di una persona – che si tratti di esami diagnostici, di formulare una diagnosi sulla base dei risultati di tali esami, di iniziare un trattamento, eventualmente scegliendo quello che appare il più indicato tra i diversi possibili, di optare per una terapia domiciliare o per il ricovero, tra un trattamento medico o chirurgico, e così via – questa deve essere necessariamente condivisa da almeno due attori: il paziente e il suo medico. E tali due attori svolgono ruoli diversissimi tra loro: il paziente è il diretto interessato, fortemente coinvolto sul piano emotivo, e d’altra parte non in possesso di sufficienti elementi su cui basare la propria decisione; il medico è il professionista che detiene le conoscenze necessarie ad orientare la scelta, ma non può essere lui a scegliere per il paziente.
Da qui nasce la necessità del consenso informato: idealmente il medico dovrebbe poter trasferire al paziente tutta la sua scienza cosicché questi possa operare una scelta razionale e consapevole. Questo naturalmente non è possibile, ma occorre avvicinarvisi per quanto si può. Il punto di equilibrio fra l’ideale informazione completa del paziente e l’effettiva linea di comportamento da auspicare nella realtà concreta dovrebbe essere indicato dal rapporto di fiducia fra i due attori. Purtroppo, tale rapporto negli anni recenti si è incrinato, probabilmente perché si è andato perdendo il contatto diretto tra il vecchio medico di casa e la sua clientela, che ben conosceva e dalla quale era ben conosciuto, e la medicina si è andata sempre più frammentando in specializzazioni e sub-specializzazioni. I pazienti sono (o credono di essere) sempre più informati sulle ultimissime acquisizioni e spesso si rivolgono ai medici sollecitando e richiedendo specifici trattamenti piuttosto che altri; i medici, d’altra parte, vivono nel costante timore che i pazienti, scontenti o delusi dal loro operato, possano addirittura intraprendere contro di loro azioni legali.
E si arriva così a situazioni grottesche, in cui i cosiddetti “moduli di consenso informato” sono una sorta di dossier simili alle istruzioni per l’uso degli elettrodomestici, pieni di pagine e pagine di termini tecnici e di statistiche che nulla possono aggiungere all’effettiva consapevolezza del paziente, che servono soltanto ad assolvere a una funzione burocratica o medico-legale. Quel che di questa situazione risulta grottesco è che pensare di poter trasferire conoscenze ed esperienze acquisite in anni di studio e in anni di pratica attraverso un pur articolato modulo è chiaramente un nonsense.
Il paziente davvero consapevole non è dunque quello che, grazie a un modulo o grazie a Google, ne sa esattamente quanto il suo medico: il paziente davvero consapevole è quello che, fidandosi di colui che interroga, al suo medico sa porre le domande giuste.
A queste domande il medico deve rispondere in scienza e coscienza, fornendo al paziente le informazioni sufficienti e necessarie a compiere le sue scelte riguardo la propria salute. Invece, per come è impostato oggi, il modulo del consenso informato non è che un elenco delle possibili evoluzioni negative che una certa terapia può avere, culminanti naturalmente nella morte, che sappiamo essere il destino di tutti noi, e quindi conviene sempre metterla in conto. Non è insomma che una lista di possibili sciagure, e neanche di tutte quelle possibili: la medicina, infatti, non è una scienza esatta, e non si potrà mai esser certi che alle sventure già note non se ne aggiunga una nuova proprio nel caso di specie.
Cristina Cavalletti, Unità Coronarica Policlinico Umberto I,
Università “La Sapienza” di Roma.
Il medico onesto, una volta fatto leggere e firmare il catalogo dei mali possibili, necessario alla sua assicurazione più che ad altro, dovrebbe garantire al paziente l’informazione utile e vera, ossia un’informazione molto più parziale ma al contempo più circostanziata, adattata alla situazione specifica e dunque adeguata a decidere della medesima.
Come i vecchi medici condotti, i moderni professionisti della sanità dovrebbero riapprendere ad ascoltare i propri pazienti con empatia, comprendendo i loro timori e le loro paure, e cercando di rispondere alle loro richieste di aiuto oltre che di informazione. Per conseguenza anche i pazienti tornerebbero, si spera, a non considerare il proprio medico come un meccanico dalle sorprendenti conoscenze tecniche o come una dispensa dalla quale ritirare l’una o l’altra marca di vaccino anti-Covid, in base a quale sia al momento più caldeggiata da qualche loro parente o da qualche influencer con molto tempo libero, ma come soprattutto una persona in grado di ascoltarli e di comprenderne la situazione unica e specifica.
La responsabilità di tale cambiamento di prospettive, naturalmente, non può ricadere sul paziente ma ricade sul medico. Il vero consenso informato non è sul malanno né sulle terapie ma sul terapeuta: è il medico che deve spiegare al paziente, con l’atteggiamento e coi fatti, che può fidarsi di lui e affidarsi a lui.