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di Elisabetta Bramerio

A che punto è la prevenzione cardiovascolare in Italia?A stringere le maglie di una prevenzione più efficiente,predisponendo i controlli clinici e diagnostici necessari,ci dovrebbe pensare il medico. Questo per evitare che il paziente sia portato a sottovalutare la gravità del problema, prendendo sotto gamba la terapia e minimizzando l’importanza dello stile di vita, a causa della scarsa rilevanza, come disturbi,dei sintomi cardiovascolari

Estate 2016. Il ‹‹Giornale Italiano di Cardiologia›› esce con un numero speciale che propone un documento dal titolo programmatico: “Colesterolo e rischio cardiovascolare: percorso terapeutico in Italia”. L’elaborato – si legge nella pagina di occhiello – è il frutto del lavoro comune di 16 società scientifiche e dell’Istituto Superiore di Sanità. Il documento è scaricabile gratuitamente da Internet e, cosa ancora più accessibile per essere un testo scientifico, è scritto in italiano e non in inglese, forse perché il suo scopo è diventare uno strumento di consultazione rapida per medici e operatori sanitari che fanno prevenzione cardiovascolare nel nostro Paese.

Il testo prende le mosse da un’indagine epidemiologica effettuata fra il 2008 e 2012. Nel corso di quei cinque anni sono stati messi sotto osservazione circa 7.912 pazienti residenti in 23 comuni scelti in base al criterio di rappresentazione di tutte le regioni. Ai pazienti, di età compresa fra 35 e 74 anni, sono stati aggiunti due sotto gruppi per rendere l’indagine più completa, il primo di 802 anziani (75-79 anni) e il secondo di 397 giovani (25-34 anni). Analizzando i risultati, i ricercatori hanno riscontrato che, rispetto all’analisi precedente (1988-2002), vi è stato un netto incremento degli eccessi di colesterolo sia negli uomini (39% in più) sia nelle donne (33%). Ad allarmare di più, il fatto che fra le persone con dislipidemia (colesterolo e trigliceridi ben oltre la soglia di normalità), circa il 40% non sa di esserlo, mentre un buon 35%, pur sapendolo, non segue una dieta adeguata e neppure una terapia specifica.  Insomma, data l’alta percentuale di morti e di invalidità permanenti che ne conseguono, sembra che gli italiani abbiano scelto di farsi del male da soli, ignorando sostanzialmente il problema.

Fino a qualche anno fa si pensava che gli italiani fossero una popolazione a basso rischio coronarico grazie ai benefici derivanti dal loro modo di mangiare. Dai tempi di Ancel Keys, l’epidemiologo americano che per primo, negli anni Sessanta, ha messo a punto il concetto di Dieta Mediterranea, il largo consumo di carboidrati, connesso a questo tipo di dieta, è sembrato vantaggioso, in quanto pasta e pane (carboidrati complessi), frutta e verdura (carboidrati semplici, ricchi di fibre) non fanno aumentare il colesterolo cattivo (LDL). Da allora, però, le cose sono cambiate. Gli italiani si sono allineati agli standard alimentari europei, con il risultato che il consumo giornaliero di grassi saturi è passato dal 7% delle calorie totali di una volta al 12-15% di oggi. Ciò vale anche per il consumo medio di colesterolo, che supera i 350 mg/die, rispetto ai 300 mg/die di un tempo e ancora raccomandati. Lo stesso dicasi per il consumo di fibre, oggi inferiore a 20 g/die, mentre ai tempi delle misurazioni di Ancel Keys, il valore medio giornaliero era di 40-45 g.

Studi recenti, condotti negli Stati Uniti, hanno stabilito dei valori di pressione arteriosa e di colesterolo LDL ottimali per la popolazione in generale. Si è dimostrato che le persone che hanno una pressione arteriosa fino a 120/80 mm/HG, un colesterolo totale inferiore a 200mg/dl in assenza di terapia specifica, un indice di massa corporea inferiore a 25 kg/m², tipico dei normopeso, che non fumano e che consumano poco alcol hanno la mortalità totale specifica più bassa per malattia cardiovascolare. Invece, i pazienti che hanno già subito una malattia cardiovascolare maggiore – per esempio un infarto o un ictus – dovrebbero essere sottoposti a un trattamento finalizzato a una drastica riduzione di tutti i fattori di rischio, a cominciare dalla presenza di colesterolo LDL nel sangue.

Diverse linee guida sono disponibili per il calcolo del rischio cardiovascolare globale. La valutazione di tale rischio interessa tutte le persone che presentano uno o più fattori di rischio, indipendentemente dal fatto che siano soggetti sani oppure già provati da malattia cardiovascolare. Il compito di queste linee guida è stimare la probabilità di andare incontro a un evento cardiovascolare maggiore, per chiunque. Il dato più significativo coincide con i valori di colesterolo LDL. Nelle persone a rischio cardiovascolare “basso” e “moderato”, tale valore deve essere inferiore a 115 mg/dl, che diventa inferiore a 100 mg/dl per le persone a “rischio alto”. Queste ultime, sono i soggetti con dislipidemie familiari o con ipertensione severa, diabetici senza fattori di rischio cardiovascolare e senza danno d’organo e pazienti con insufficienza renale cronica e moderata. Mentre per i pazienti a “rischio molto alto”, ovvero coloro con malattia cardiovascolare documentata, pregresso infarto, ictus o arteriopatie periferiche, diabetici con più fattori di rischio cardiovascolare, con insufficienza renale, il valore di colesterolo LDL deve mantenersi al di sotto dei 70 mg/dl.

Come si raggiunge e si mantiene il valore ottimale di colesterolo LDL? I sopraccitati studi sono concordi nell’indicare che è necessaria un’azione incisiva volta a migliorare gli stili di vita, facendo più sport, riducendo il consumo di alcol, eliminando il fumo. Tuttavia, per i casi più seri, cioè per contenere il rischio cardiovascolare “moderato”, “alto” e “molto alto”, è necessario l’intervento farmacologico di supporto. Le statine si sono universalmente dimostrate capaci di contenere e ridurre drasticamente il colesterolo LDL con un rapporto rischi/benefici del tutto favorevole. Perciò questo farmaco rappresenta un punto di non ritorno nella prevenzione cardiovascolare a livello mondiale. Vi sono prove al di là di ogni ragionevole dubbio che le statine si sono dimostrate in grado di ridurre significativamente il rischio di infarto miocardico e di ictus, sia in prevenzione primaria (soggetti sani) sia in prevenzione secondaria (soggetti con pregressa malattia cardiovascolare).

Le statine agiscono nel fegato, dove avviene il processo di inibizione del colesterolo tra le cellule. Le statine aumentano le capacità di espressione dei recettori epatici per le LDL, con una conseguente diminuzione, stimata fra il 30 e il 50 %, del colesterolo trasportato.

Accanto alle statine, si sono dimostrati efficaci i PUFA n-3, ovvero dei grassi essenziali meglio conosciuti con il nome di Omega-3. L’effetto protettivo cardiovascolare di questi grassi essenziali agisce nei confronti dei trigliceridi ed è conseguente a un’alimentazione ricca di pesce, noci e di alcuni ortaggi. Da tempo gli Omega-3 sono presenti sul mercato farmacologico sotto forma di integratori.

Quando da sola la statina non basta, la terapia massimale a base di statine viene associata con altri farmaci. Già da qualche anno è in commercio un inibitore dell’assorbimento del colesterolo a livello intestinale: l’Ezetimibe. Questo farmaco inibisce l’assorbimento del colesterolo e contribuisce alla sua riduzione a livello circolatorio. Inoltre, se associato a una statina, ne potenzia l’azione tanto che l’associazione Ezetimibe + statina utilizzata al più basso dosaggio determina una riduzione della colesterolemia pari al massimo dosaggio della statina stessa.

La ricerca farmacologica ha messo a punto altri farmaci in grado di dare una mano alle statine. Ottimi risultati si sono ottenuti con farmaci che inibiscono il PCSK9. Il PCSK9 è una proteina, presente nel nostro organismo, che aiuta il colesterolo LDL a unirsi al suo recettore nella cellula epatica. Una volta che il complesso recettore/LDL è presente nel fegato, il PCSK9 distrugge i recettori del colesterolo.

Un potente alleato naturale nella lotta contro gli eccessi di trigliceridi è l’attività fisica. Chi fa esercizio fisico regolare incrementa sia il colesterolo buono (HDL) sia i trigliceridi, con conseguente miglioramento del colesterolo LDL, il cui calcolo è secondario ai valori di entrambi. Se vale il dato secondo il quale gli atleti che praticano sport di resistenza hanno livello di colesterolo HDL più elevati del 40-50% rispetto a chi è sedentario, un’attività fisica moderata, che duri fra i 30-40 minuti, 5 volte a settimana, che porti la frequenza cardiaca a lavorare tra il 40 e il 60% dei valori massimi, è in grado di ottenere gli stessi effetti sul quadro lipidico nel suo complesso, e cioè un abbassamento significativo del colesterolo LDL per effetto dell’innalzamento di HDL e riduzione dei trigliceridi.

Da notare che l’attività fisica viene suggerita anche ai pazienti con pregressi interventi cardiovascolari, dall’infarto all’insufficienza cardiaca trattata chirurgicamente. L’intensità e il tipo di esercizi sono da tarare sulle caratteristiche fisiche del paziente, a seguito di attenta valutazione cardiologica o dopo un adeguato periodo di riabilitazione cardiovascolare.

Un altro intervento di prevenzione è la riduzione di peso. I dati dicono che a fronte di una perdita di peso di 10 kg, si registra un calo di colesterolo LDL di almeno 8 mg/dl.

La sospensione di alcol è invece assai raccomandabile nei pazienti affetti da ipertrigliceridemia, in quanto l’alcol agisce da moltiplicatore di questi lipidi. Nei soggetti per i quali l’eccesso di trigliceridi non è un problema, vale la regola di assumere alcol in una quantità pari a 20-30 g/dl negli uomini e di 10-20 g/dl nelle donne, corrispondente a 2 e 1 bicchieri di vino o birra (o bicchierini di superalcolici) al giorno.

Fra i capisaldi della prevenzione cardiovascolare vi è anche la riduzione drastica del fumo. A tacer d’altro, il fumo interviene sulle particelle di colesterolo LDL provocandone l’ossidazione nelle arterie, ragion per cui la sua sospensione, già dopo qualche mese, è in grado di fare piazza pulita dei residui di queste particelle di colesterolo dannoso.

Come si decide il trattamento per un paziente con ipercolesterolemia? Innanzitutto bisogna chiarire quali sono le sue condizioni cliniche, il suo rischio cardiovascolare globale, il target di colesterolo LDL e con quali farmaci può essere raggiunto. Ma prima di arrivare a decidere il da farsi bisogna che il medico abbia studiato la sua storia clinica e familiare, che sia in possesso dei dati su sesso, età, peso, indice di massa corporea, abitudine al fumo, pressione arteriosa. Parallelamente, occorre che conosca i dati di glicemia, colesterolemia frazionata e trigliceridemia e che abbia valutato la presenza di placche ateromasiche (nelle arterie), di un’eventuale ipertrofia ventricolare sinistra e di possibili danni d’organo. Infine è necessario riscontare la presenza di diabete mellito, insufficienza renale cronica, dislipidemia di tipo familiare. Se il paziente presenta una o più di queste condizioni, il medico lo assegna al trattamento del maggior rischio cardiovascolare globale.

In conclusione, ogni paziente arrivato alla soglia dell’età critica, ovvero dopo i 40 anni, dovrebbe essere valutato secondo questi parametri. A seconda del suo quadro clinico, gli esami di base per la definizione del rischio globale verranno ripetuti con regolarità, di massima ogni 5 anni per i pazienti in prevenzione primaria con rischio “moderato”, una volta l’anno o anche più per i pazienti in prevenzione secondaria con rischio “alto” e “molto alto”. A stringere le maglie di una prevenzione attiva ed efficiente, predisponendo i controlli clinici e diagnostici necessari, ci deve pensare il medico, di base e/o specialista, che ha in cura il paziente in base al tipo di patologia. Solo così si evita che il paziente sia portato a sottovalutare la gravità del problema, prendendo sotto gamba la terapia e minimizzando l’importanza dello stile di vita, a causa della scarsa rilevanza dei sintomi cardiovascolari.

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