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Questa e le immagini seguenti sono state scattate in occasione del Gay-Pride di Amsterdam tenutosi nell’agosto 2019 (foto di Elisabetta Bramerio).

Le minoranze sessuali hanno un accesso e un rapporto con la salute e la sanità decisamente di second’ordine rispetto al resto della popolazione. Disparità che si vedono nella maggior prevalenza di disordini mentali, suicidi e incidenza più alta delle malattie cardiovascolari. L’affermazione non è una boutade di qualche ricercatore in cerca di notorietà al punto da metterla sul curioso o lo scabroso, a seconda dei punti di vista. Si tratta invece di una notizia seria, con tutti i crismi dell’ufficialità. «Il settore della psicologia che si occupa di salute delle persone LGBT+  ̶  spiega Sara Bosatra, psicologa, psicoterapeuta e vicepresidente dell’associazione BussoleLGBT  ̶  ha indagato il malessere peculiare riscontrato nelle persone omosessuali, bisessuali e transgender, individuando una spiegazione esaustiva nel fenomeno del “minority stress”. Si tratta di una condizione di disagio psicologico sollecitato da esperienze di pregiudizi e discriminazioni basate sull’appartenenza ad una minoranza, in questi casi a sfavore di tutte le persone non-eterosessuali e non-cisgender (o presunte tali). Lo stigma sociale sperimentato in maniera più o meno diretta dalle minoranze sessuali in un contesto socioculturale dominato dall’eterosessismo genera uno stress specifico che ha ricadute impattanti sulla salute psico-fisica personale e rende necessario lo sviluppo di fattori peculiari di resilienza per garantire uno stato di benessere». Nel 2020, la news di cui sopra è stata evidenziata anche dall’Accademia Americana delle Scienze, Ingegneria e Medicina. Tant’è che due ricercatori, noti fra gli addetti ai lavori per essersi distinti nello studio della malattie nella comunità LGBT+, l’hanno subito ripresa in un loro editoriale apparso in aprile su «Nature Review» In quest’articolo, riferendosi alle conclusioni di uno studio di revisione pubblicato nel 2020 in cui loro stessi hanno preso parte, i due autori ricordano una serie di dati sul quale vale la pena di accendere i riflettori.

È così che sappiamo che fra le persone LGBT+ (il + è inclusivo per tutte le altre minoranze sessuali, ed evita di nominarle sempre) il consumo di alcol e droghe è maggiore rispetto al resto della popolazione. Che fra le donne lesbiche, vige un tasso di obesità maggiore che nella controparte “straight”. E che, a causa della maggior esposizione a discriminazioni e violenze (prime fra tutte gli abusi sessuali) i fattori di stress incidono di più sulla salute cardiovascolare di queste minoranze. Qualcosa di analogo è stato riscontrato, nello specifico, fra le donne transessuali, ovvero persone di sesso maschile assegnato alla nascita che decidono di intraprendere la terapia ormonale a base di estrogeni per femminilizzarsi. A causa di queste terapie, accade che in questa minoranza crescano di più rispetto alla media coloro che sviluppano un infarto del miocardio o che subiscono un ictus ischemico. Per queste pazienti, il quadro clinico è destinato a precipitare nel momento in cui l’età avanza, e soprattutto perché le cure e le attenzioni mediche scarseggiano per le ragioni di cui stiamo per parlare. Rimane il fatto che gli anziani della comunità LGBT+ sono considerati a maggior rischio di malattie croniche.

Mentre per gli uomini transessuali, ovvero le persone di sesso femminile assegnato alla nascita che assumono testosterone per mascolinizzarsi, il peggioramento non è così netto. Ma il dato che inquieta di più gli specialisti, è che il numero di studi clinici mirati è ancora inesistente e di conseguenza di linee guida specifiche ad uso dei clinici per trattare al meglio questo tipo di pazienti ancora non ce ne sono. Dal 2018, negli Usa sono state approvate delle modalità di anamnesi mirate (Eletronic Health Record), ma non essendovi l’obbligo di seguirle, la maggior parte dei medici le disattende, limitandosi a trattare i soggetti in questione senza le dovute specificità di identità sessuale. In altre parole, nelle cartelle cliniche l’identità di genere è ancora inesistente. Il che non fa altro che accrescere la sensazione di straniamento e di stigma fra la popolazione interessata.  Non è un caso, infatti, se fra di essa, stando allo studio di revisione citato, le persone transgender sono solite evitare di andare dal medico per paura di essere discriminate. Discriminazione è ancora una parola che fa paura. Secondo un’indagine mirata, il 31% delle persone transgender intervistate ha dichiarato che non va dal medico per paura di subire discriminazioni. «Le esperienze di discriminazioni o micro-aggressioni portano spesso le persone transgender ad evitare i controlli medici che non sono più che necessari per timore di subire un trattamento pregiudizievole – ricorda la dottoressa Bosatra – Questo evitamento costituisce di fatto un comportamento a rischio per la salute delle persone LGBT+, sul quale è possibile intervenire attraverso formazioni specifiche del personale sanitario che prevedano l’educazione al linguaggio inclusivo e la condivisione di buone pratiche».

Quantunque sempre più ricerche stiano dimostrando che la disparità fra l’incidenza delle malattie cardiovascolari fra le persone LGBT+ e il resto della popolazione giochi a sfavore delle prime, gli sforzi della classe medica sono ancora troppo limitati. È questa la prima conclusione dei due autori citati. In aggiunta a questo fatto, viene sottolineata l’urgenza di aumentare il numero di studi misurati sulle caratteristiche specifiche di ogni minoranza sessuale, così da maturare con il tempo delle linee guida che permettano di curare più nel dettaglio e di conseguenza meglio ogni singolo/a paziente in relazione alle conoscenze maturate sul suo gruppo di appartenenza. L’uguaglianza in questo caso non consiste nel valutare le persone in maniera tutta uguale, ma di riservare a ciascuna persona le attenzioni proprie della diseguaglianza che sta vivendo.

Disforia di genere nell’età evolutiva

Vi è una questione interessante e ancora controversa che riguarda l’uso dei bloccanti della crescita per rallentare lo sviluppo nei casi di disforia di genere in età evolutiva, di cui non sono ancora noti gli effetti a lungo termine. L’argomento è stato approfondito recentemente su «The Economist» I/le minori che soffrono di disforia di genere hanno vissuti particolarmente dolorosi nel periodo della pubertà per le trasformazioni del corpo che enfatizzano caratteri sessuali biologici in cui non si riconoscono. Questa condizione di disforia genera una sofferenza tale da portare nella maggior parte dei casi allo sviluppo di gravi psicopatologie e al rischio suicidario. Questo è il motivo per cui le linee guida internazionali (Royal College of Psychiatrists, 1998; Hembree WC et al, 2009, WPATH, 2011) propongono come terapia compassionevole la prescrizione di bloccanti ipotalamici (GnRH analoghi) per i/le minori con diagnosi di disforia di genere: si tratta sostanzialmente di un modo di prendere tempo (in media circa 2 anni), per osservare se la disforia si attenua e scompare nel giro di qualche anno oppure se continua a persistere (nel 12%-27% circa dei casi, De Vries, Cohen-Kettenis, 2012). Nei casi persistenti, aver assunto una terapia a base di bloccanti consente un esito decisamente migliore della terapia ormonale per maschilizzare o femminilizzare la persona. Tuttavia, gli effetti a lungo termine dei bloccanti della crescita non sono ancora noti per mancanza di studi. Questi casi sollevano una questione tutt’altro che banale, in cui curare la salute psichica della persona potrebbe implicare effetti a lungo termine sulla salute fisica di cui non conosciamo ancora abbastanza.

Dott.ssa Sara Bosatra, psicologa, psicoterapeuta e vicepresidente dell’associazione BussoleLGBT (nella foto).

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