di Anna Pellizzone
L’aria che estromettiamo con il nostro respiro sembra contenga preziosi indizi circa il pericolo che corriamo di ammalarci di malattie cardiovascolari. Secondo uno studio statunitense, che ha registrato l’espirazione di oltre 3 mila pazienti, esiste una correlazione evidente tra le concentrazioni di monossido di carbonio (CO) presenti nel respiro umano e il rischio di ictus. Le ragioni di questo rapporto sono ancora da approfondire, tuttavia il monossido di carbonio è già stato collegato ad altre patologie, tra cui alcune malattie
L’aria che buttiamo fuori dai polmoni quando respiriamo potrebbe essere una cartina tornasole del rischio che abbiamo di sviluppare ictus. A dirlo è uno studio che viene dagli Stati Uniti – pubblicato dall’American Heart Association nell’ambito dello studio di Framingham (vedi la scheda) – attraverso cui alcuni ricercatori americani hanno trovato un’associazione tra le concentrazioni di monossido di carbonio espirato e l’incidenza di ictus e di danneggiamenti vascolari subclinici (in forma lieve o precoce) al cervello. L’indagine ha coinvolto oltre 3300 individui, per metà di sesso femminile e per metà di sesso maschile, compresi tra un’età media e anziana. Prima, però, di entrare nel merito della ricerca, facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire che cos’è il monossido di carbonio e come interagisce con il nostro organismo.
Il monossido di carbonio è un gas inodore, incolore e insapore ed è uno dei prodotti, insieme ad altri gas, della combustione di materiale organico (come per esempio legno, carbone, petrolio) quando questa avviene in difetto di aria. In natura deriva principalmente da fenomeni come gli incendi boschivi o le eruzioni vulcaniche, mentre il CO di origine antropica deriva soprattutto dalla combustione dei carburanti fossili. Di qualunque natura esso sia, il monossido di carbonio è considerato tossico per l’organismo umano perché la sua molecola ha una grande affinità con l’emoglobina, la proteina adibita al trasporto della molecola di ossigeno nel sangue (O2). Legandosi all’emoglobina con più facilità rispetto all’ossigeno – con cui entra in competizione legandosi allo ione del ferro dell’emoglobina – il monossido di carbonio viene assorbito molto rapidamente negli alveoli polmonari, riducendo di conseguenza l’assorbimento della molecola di ossigeno e il rilascio di questa ai tessuti. In un fumatore, per esempio, la carbossiemoglobina, la molecola che si forma dal legame del CO con l’emoglobina del sangue, può raggiungere il 7%, contro lo 0,5% di un non fumatore che respira aria pulita.
Tuttavia, come ci spiega Giulio Stefanini, cardiologo presso la Cardiologia Clinica e Interventistica dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano): «Il monossido di carbonio non proviene solo dall’ambiente attraverso la respirazione, ma è anche un prodotto endogeno, che deriva dal metabolismo cellulare». Nel corpo umano, per esempio, si ha produzione di CO quando il gruppo EME – la parte non proteica dell’emoglobina – viene degradato da un enzima, l’eme ossigenasi, noto anche come enzima dello stress. Ma sono anche altri i processi endogeni che portano alla sintesi di CO, come l’auto ossidazione dei fenoli, la foto-ossidazione di composti organici o la perossidazione lipidica dei lipidi della membrana.
Ma come facciamo a misurare la quantità di monossido di carbonio presente nel nostro corpo? Dal momento che il monossido di carbonio si equilibra molto velocemente attraverso gli alveoli, e in particolare nella barriera alveolo-capillare, dove avviene lo scambio di ossigeno e di anidride carbonica tra sangue e polmoni, i livelli endogeni di CO (e cioè la sua concentrazione all’interno dell’organismo) rispecchiano quelli presenti nell’aria espirata. Sulla base di questo, possiamo quindi dire che misurando le concentrazioni di CO espirato è possibile ricavare le concentrazioni di CO endogeno. «Al momento – prosegue il cardiologo – il monossido di carbonio si misura solo per fini scientifici, attraverso una sorta di boccaglio, che ne quantifica i valori nell’aria espirata».
«Il monossido di carbonio – continua Stefanini – ha una funzione regolatoria in diversi meccanismi biologici: alcuni esperimenti su modelli animali hanno dimostrato che la presenza di concentrazioni fisiologiche di CO è importante per il buon funzionamento delle cellule vascolari. Al contrario, concentrazioni troppo alte di CO sono dannose per le cellule vascolari e favoriscono, per esempio, ipertensione e iperglicemia».
Infatti, secondo precedenti indagini, condotte sempre nell’ambito dello studio di Framingham, i livelli di CO esalato sono stati associati positivamente alla sindrome metabolica e a malattie cardiovascolari subcliniche e incidenti, tra cui il diabete e l’infarto del miocardio. A partire da questi dati, i ricercatori hanno quindi deciso di indagare un’eventuale associazione tra le concentrazioni di CO e la presenza di malattie cerebrovascolari subcliniche e/o l’incidenza di ictus e di attacchi ischemici transitori.
«Basandosi su questa ipotesi – entra nel vivo della spiegazione Stefanini – gli autori di questo studio hanno caratterizzato gli individui coinvolti (tutti classificati come soggetti sani, che quindi non possono essere chiamati pazienti) dal punto di vista di tutte le variabili possibili, dallo stile di vita, all’ambiente, alla storia patologica famigliare, eventualmente anche con esami diagnostici, come la risonanza, seguendole poi negli anni. Si tratta di un’osservazione che è cominciata negli anni ’70 ed è proseguita fino agli anni ’90. Quello che è emerso è che, effettivamente, livelli più alti di monossido di carbonio erano associati a piccoli danni alla risonanza del cervello e al tempo stesso erano associati a un più alto rischio di ictus».
Secondo il cardiologo dell’Humanitas «si tratta di uno studio generatore di ipotesi», che nell’immediato non avrà grandi risvolti applicativi. «Oggi – prosegue Stefanini – conosciamo diversi fattori di rischio per l’ictus. Ma non tutti i pazienti con un fattore di rischio sviluppano poi effettivamente l’evento. Quello che si ipotizza in questo studio è che più elevata è la concentrazione di monossido di carbonio nel sangue, più elevato è il rischio che si possa passare da una semplice situazione di rischio a un effettivo sviluppo della malattia».
L’associazione tra monossido di carbonio e ictus, però, non implica automaticamente che le due cose siano legate da un rapporto di causa-effetto. Come tutte le associazioni per quanto forte, per quanto robusta e corretta, con tutti gli aggiustamenti di correzione statistica, come nello studio presentato, rimane un’associazione. Questo significa che non può essere esclusa la presenza di un terzo fattore che sia la causa di entrambi (in questo caso dell’evento ictus e dell’alta concentrazione di CO). Il rapporto di causa-effetto, quindi, non si può verificare col disegno di ricerca presentato perché si tratta di uno studio osservazionale retrospettivo.
Non a caso, lo stesso studio presentato dall’American Heart Association, ipotizza che all’origine di un’alta concentrazione di monossido di carbonio potrebbe esserci un problema di metabolismo dell’EME. «Immaginiamo che ci sia un’alterazione del metabolismo cellulare che porta a un aumento del monossido di carbonio circolante e che quindi essa possa anche essere responsabile di provocare un ictus. In questo caso il monossido di carbonio avrebbe quindi una sola funzione di marker. In altre parole il CO sarebbe un’espressione del rischio di sviluppare eventi a cui sono sottoposti gli individui, e non la diretta causa degli eventi stessi». Secondo il cardiologo, lo studio è quindi molto rigoroso e ha dei risvolti potenzialmente interessanti, ma ha due limiti principali. «Il primo è l’assenza di una dimostrazione di una forte connessione causa-effetto tra CO ed eventi. E il secondo è che da qui a immaginare una possibile strategia per potere intervenire in questo tipo di soggetti ci vuole ancora molta strada».
A distanza di 50 anni dalla sua nascita, lo studio di Framingham continua a dare importanti spunti per la ricerca, tuttavia, per una più chiara descrizione dei rapporti causa-effetto che intercorrono tra le malattie cerebrovascolari e il monossido di carbonio e per una eventuale applicazione clinica di questo studio servono ancora molti sforzi.