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Le persone che soffrono di malattia cardiovascolare hanno maggiori probabilità di ammalarsi di covid-19 e una volta contratta l’infezione rischiano la prognosi infausta. Lo sostiene l’American College of Cardiology (ACC) nelle linee guida di approfondimento sulle implicazioni cardiovascolari dell’attuale pandemia. Si tratta di indicazioni redatte per aiutare i medici ad affrontare al meglio i casi più gravi, che vengono aggiornate per stare al passo con l’evoluzione della Sars Covid-19. Indicazioni in parte sovrapponibili a quelle che, nel vecchio continente, emana l’European Society of Cardiology (ESC). In una bozza aggiornata a giugno 2020, le linee guida europee entrano nel merito del fenomeno per spiegare come determinati fattori di rischio cardiovascolare e non altri predispongano ad ammalarsi di Covid-19. Sappiamo che il virus fa il suo ingresso nelle cellule di polmoni, cuore e vasi sanguigni perché è in grado di costringere l’ormone recettore dell’angiontesina-2 (ACE2) a fargli da passe-partout. ACE2 è un recettore che, quando funziona normalmente, regola la pressione arteriosa mantenendola nella norma. A contatto con il virus, invece, l’ACE2 peggiora tutte le situazioni di comorbilità cardiovascolare. Come? Scatenando l’ipertensione arteriosa e vanificando, in tutto o in parte, l’azione dei farmaci antipertensivi (Ace-inibitori). E quando la pressione arteriosa va fuori controllo, tutto il quadro clinico delle complicazioni cardiovascolari ne risente. Le malattie cardiovascolari diventano una manifestazione primaria del covid, oppure insorgono come complicazione polmonare aggravando ulteriormente la prognosi in chi è affetto da insufficienza cardiaca.

Fra le complicazioni alle quali sia l’ACC sia l’ESC raccomandano di prestare particolare attenzione, a causa di una non semplice intellegibilità dei sintomi per chi cardiologo non è, vi è l’infarto del miocardio (MI). Stiamo parlando di una delle principali cause di morte per uomini e donne a livello mondiale. Negli Usa, ogni anno il MI è responsabile di 800 mila decessi. In Europa, di oltre 550 mila. Il dolore al petto tipico è intenso e intermittente per 30-60 minuti. Può essere avvertito nella parte posteriore dello sterno o anche diffondersi fino al collo, alle spalle, alla mascella e infine ridiscendere lungo il braccio sinistro. Il dolore allo sterno viene di regola descritto come un senso di oppressione e bruciore, con trafitture più acute. Ad alcuni pazienti duole la zona epigastrica. I sintomi tipici sono sensazione di indigestione, di pesantezza o aerofagia. Si tratta di manifestazioni sintomatiche che si scatenano più spesso la mattina, quando si attiva il metabolismo per effetto della pressione arteriosa che aumenta dopo il calo notturno. Il sospetto che questi sintomi siano da riconnettere a una evenienza di infarto diventa maggiore se li presentano le donne, i diabetici, gli anziani, pazienti affetti da demenza, altri con una storia clinica di scompenso cardiaco, i cocainomani, gli ipercolesterolemici e chi ha avuto parenti di primo grado morti di infarto: congiunti uomini con meno di 45 anni e donne con meno di 55.

I sintomi di MI possono includere anche una sensazione di ansietà e di disgrazia imminente, capogiri con o senza sincopi e tosse persistente. Tra i soggetti colpiti vi è anche chi accusa nausea con o senza vomito, sudorazione, respiro sincopato o affannoso, battito cardiaco rapido o irregolare e sensazione di soffocamento.

Quale approccio viene raccomandato ai clinici che si trovano a dover fronteggiare un MI in un paziente covid? ESC e ACC concordano che, senza perdere tempo, il paziente vada trasferito in un centro specializzato ove sia possibile intervenire con l’angioplastica coronarica, conosciuta come PCI (percutaneous coronary intervention), procedura salvavita che ha ridotto sensibilmente la mortalità causata da infarto. L’angioplastica è l’intervento di emodinamica che ha rivoluzionato la cardiologia da 40 anni. Permette di fare contemporaneamente la diagnosi e il trattamento dell’infarto miocardico acuto.

Il primo intervento di angioplastica eseguito in Italia risale al 1981 e da quel momento l’incremento e la diffusione di questa tecnica sono stati costanti e progressivi. Grazie alla PCI, dagli anni Ottanta in poi la mortalità per infarto si è ridotta del 20% e il numero di questi interventi è triplicato, posizionando l’Italia al secondo posto in Europa per tasso di pazienti trattati, ricordano le statistiche.

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