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Sappiamo tutti che quando si sale in alta montagna l’aria diventa più rarefatta. Ciò in termini scientifici equivale a dire che la pressione parziale di ossigeno si riduce in modo direttamente proporzionale all’aumento della quota: se al livello del mare tale pressione è circa 160 mmHg, a 3000 m di altezza scende a 110 mmHg. Di conseguenza, si riduce la saturazione di ossigeno nel sangue. Con quest’ultimo parametro tutti noi siamo diventati familiari dopo che l’epidemia di CoViD19 ha portato i saturimetri nelle nostre case, e sappiamo bene che la saturazione considerata normale è attorno a 98%; ebbene, a 3000 m la saturazione scende a 90%. L’organismo reagisce alla minore ossigenazione del sangue accelerando la frequenza del respiro e quella del battito cardiaco, ed anche la pressione arteriosa aumenta.

Inevitabilmente, ciò si ripercuote in senso negativo sulla sensazione di benessere fisico e sulla capacità di sopportare gli sforzi degli alpinisti, siano essi professionisti o dilettanti, allenati oppure no. Si è calcolato che, una volta superati i 1500 m, la capacità fisica di una persona di esprimere uno sforzo si riduce dell’1% ogni 100 metri di altitudine. Naturalmente, l’entità del disagio dipende dallo stato di salute del soggetto, dalla sua età, dal grado di allenamento e dalla velocità con cui si sale di quota. Man mano potranno comparire senso di stanchezza ed affanno, fino ad arrivare ai sintomi che caratterizzano il “mal di montagna”: mal di testa, debolezza, affanno, palpitazioni, nausea, dolore toracico.

È soprattutto per questo che l’alta montagna viene da sempre sconsigliata alle persone con malattie del cuore e della circolazione o dell’apparato respiratorio, ma anche le persone sane dovrebbero esser consapevoli che condizioni ambientali estreme possono scatenare situazioni di malessere e di disagio, se non proprio di rischio.

In particolare, abbiamo accennato al ruolo cruciale della velocità di ascensione nello scatenare il mal di montagna: quando nel buon tempo antico si organizzavano spedizioni per raggiungere le vette, i mezzi di trasporto erano sci e muli, le ascese erano lente e si era obbligati a soste in quota presso campi base via via più alti, così che il fisico degli alpinisti, che per definizione era comunque un fisico efficiente ed allenato, aveva tutto il tempo di acclimatarsi all’altitudine con gradualità.

Oggi, grazie alle moderne cabinovie, sempre più persone, compresi individui sedentari, anziani e perfino affetti da patologie cardiache e respiratorie, possono facilmente e rapidamente raggiungere località situate a quote molto elevate: ogni anno, migliaia di persone si recano in località ad alta quota, soprattutto per sport o turismo, esponendosi agli effetti dell’ipossiemia.

È stato recentemente pubblicato uno studio, coordinato dai cardiologi dell’Istituto Monzino, mirante ad analizzare le principali variabili cardiorespiratorie in un gran numero di soggetti, non selezionati, esposti acutamente agli effetti dell’alta quota.

Un dispositivo di rilevazione automatica di peso, altezza, indice di massa corporea, pressione arteriosa, frequenza cardiaca e saturazione d’ossigeno è stato installato a Punta Helbronner, sul Monte Bianco, all’interno della stazione di arrivo di una cabinovia a 3466 m s.l.m.; la stazione di partenza si trova a Courmayeur, in località Entrèves, a 1300 m s.l.m., ed il dislivello di oltre 2000 m viene coperto in circa 20 minuti.

Una serie di cartelli posti nei locali della cabinovia illustrava la ricerca, e i volontari che desideravano aderire interagivano direttamente col sistema automatico che li guidava nella serie di misurazioni: alla fine, veniva fornita a ciascun partecipante una stampata di tutti i suoi dati, che venivano trasmessi, rispettando l’anonimato, alla stazione centrale.

La stazione è rimasta in funzione tra gennaio e ottobre 2020. Hanno aderito al progetto 4874 volontari (età media 39.9 ± 15,4 anni) di cui il 54,4% maschi. Di questi, in 3267 i dati risultarono completi ed utilizzabili per l’analisi finale: 1808 casi durante l’inverno e 1459 in estate. Bisogna anche considerare che, a causa delle ondate epidemiche di CoViD19, le misurazioni “estive” sono state effettuate mentre i soggetti indossavano maschere faciali.

Riportiamo qui di seguito alcuni dati “bruti”, da cui si può comunque ricavare qualche considerazione interessante. La saturazione di ossigeno media risultava 86.8% ± 6.8%, ed appariva legata all’età, al sesso, alla stagione, all’indice di massa corporea ed alla frequenza cardiaca, ma non alla pressione arteriosa. Infatti, i 391 soggetti (12%) con SpO2 inferiore a 80%, erano  più anziani, con un indice di massa corporea più elevato e con una frequenza cardiaca maggiore. Particolarmente interessante appare il fatto che le donne presentano, rispetto agli uomini, una saturazione più alta, in tutte le fasce d’età, per qualsiasi massa corporea, ed in tutte le stagioni.

La mole di materiale a disposizione comunque è notevole, e certo gli studiosi potranno ricavarne molte osservazioni utili a guidare ricerche future. Questo è uno dei primi studi svolti su una popolazione tanto vasta e tanto eterogenea: la maggior parte dei lavori pubblicati finora infatti riguarda membri di spedizioni, o dati ricavati presso campi base dove comunque transitano un numero ridotto di persone, e per di più persone selezionate, appunto in quanto facenti parte di escursioni ad alta quota.

Io trovo quasi commovente che un simile studio porti la firma dell’Istituto Cardiologico Monzino, perché il nome Monzino è ben noto agli appassionati di montagna. L’istituto Cardiologico Monzino nacque negli anni ’80 del secolo scorso da una donazione dell’industriale e mecenate Italo Monzino: questi doveva le sue cospicue ricchezze al fatto di esser stato, insieme a suo fratello Franco, il fondatore dei Magazzini Standa. Così come nella clinica e nella ricerca sul cuore, la famiglia Monzino profuse denaro ed energie anche in imprese alpinistiche e di esplorazione: Guido Monzino, figlio di Franco, dopo aver lavorato per anni nell’azienda di famiglia, ideò e realizzò spedizioni rimaste nella storia. In particolare, nel 1971 raggiunse il Polo Nord con slitte trainate da cani e con equipaggiamento originale confezionato dagli eschimesi di Qaanaaq, e nel 1973 fece parte della prima ascensione italiana all’Everest.

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