Oggi che siamo ai primi di novembre le pneumologie dei maggiori ospedali italiani sono in grado di stare dietro al follow-up dei pazienti post covid programmato a suo tempo? «Ho fatto la prima visita a giugno. Da allora il Forlanini – così si chiama la pneumologia del San Matteo di Pavia, ndr – non mi ha più chiamato. Sto aspettando. Mi hanno dimesso a maggio, dopo 22 giorni di reparto covid» ci racconta un uomo di 77 anni nostro conoscente. In realtà, se il paziente non viene richiamato è perché è guarito, almeno dai postumi del covid, spiegano dal Policlinico. «L’ambulatorio post covid del San Matteo era stato attivato a fine aprile con il solo scopo di valutare le possibili conseguenze sui pazienti che erano stati ricoverati per il Covid – scrive l’ufficio stampa del nosocomio pavese – I pazienti post covid sono stati chiamati a distanza di più di un mese dalle dimissioni; sono venuti in ambulatorio, è stata fatta una visita, una valutazione funzionale respiratoria, una radiografia del torace, degli esami ematici e, ove necessario, ulteriori accertamenti in base al problema che veniva evidenziato. L’attività dell’ambulatorio si è conclusa il 31 luglio scorso. Alcuni di questi pazienti continuano a essere seguiti presso gli ambulatori di Pneumologia, con controlli periodici».
Resta il fatto che fa specie rileggere gli articoli sul lento ma progressivo rientro alla normalità negli ospedali avviato tra i primi di maggio e la metà giugno, al termine della prima ondata covid. Mesi dopo molti degli adempimenti di allora sono abortiti sul nascere. Altri, che nel frattempo si sono concretizzati, hanno subìto forti rallentamenti. Colpa del virus che ha di nuovo alzato la testa, si dirà. E così l’incubo degli ospedali sotto stress diventa una minaccia concreta per ogni tipo di malato e di patologia. Succede perché gli ospedali non sono più in grado di tener dietro ad altro che non sia la nuova ondata della pandemia. Prendiamo ancora la situazione delle pneumologie come termine di confronto. E parliamone sempre in riferimento al San Matteo di Pavia, Istituto di Ricovero e Cura a carattere Scientifico, quando la prima emergenza della pandemia sembrava finita.
In un’intervista apparsa a fine maggio su “sanitainformazione.it”, il direttore della pneumologia del San Matteo, il professor Angelo Maria Corsico, ricorda che il virus non è sparito ma era ancora lì, sotto traccia. Detto ciò, annuncia che il reparto covid è appena stato smantellato e restituito alla normalità della cura di tutte le altre patologie. Il che significa che dalla metà ottobre, se non prima, hanno rivoluzionato di nuovo tutto. Il solo reparto degli infettivi, trasformato nel frattempo in reparto covid, non bastava ad accogliere il numero crescente di pazienti con sintomi acuti. «È doveroso ricordare che il San Matteo nel periodo tra la fine della prima fase emergenziale e l’inizio di questa seconda ondata era uno dei cinque hub di Regione Lombardia per la terapia intensiva (avevamo 11 posti letto adibiti al ricovero di pazienti affetti da covid) e uno dei 17 hub per le malattie infettive (avevamo 16 posti letto adibiti al ricovero dei pazienti affetti da covid) – puntualizza l’Ufficio stampa – Ora, il Policlinico si sta muovendo secondo le previsioni del piano ospedaliero predisposto nei mesi scorsi, sulla base dell’esperienza maturata nel corso della prima fase emergenziale. Dopo aver riconvertito, nuovamente, il padiglione delle Malattie Infettive in palazzina covid, sono stati allestiti ulteriori posti nel padiglione della Pneumologia».
Ma a fine maggio, quando Corsico ne parla, la Pneumologia ha appena dimesso l’ultimo paziente affetto da polmonite bilaterale acuta, una delle due conseguenze più gravi del covid. L’altra è lo sviluppo di trombi ed embolie polmonari.
Sappiamo che entrambe queste patologie, a Pavia come altrove, vengono tenute sotto osservazione anche dopo la dimissione. Anche a guarigione avvenuta. Per questo motivo sono stati allestiti gli ambulatori post covid. Il protocollo sarà lo stesso anche alla fine della nuova ondata. Ai pazienti verrà fatta una visita, una valutazione della funzione respiratoria, una radiografia del torace, degli esami ematici e ulteriori accertamenti alla bisogna. Osservate speciale, eventuali anomalie a livello vascolare nei polmoni. Il covid ha dimostrato la peculiarità di inserirsi in un quadro clinico in cui la presenza di micro trombosi ed embolie sono eventualità cliniche concrete. Il check-up serve a intercettare sul nascere la presenza di una probabile ipertensione polmonare post tromboembolica. Si tratta di una malattia cronica caratterizzata da un aumento della pressione nel sangue all’interno dei vasi arteriosi del polmone. Capita quando i vasi appaiono ostruiti, ispessiti o ristretti più del normale. È una condizione che sottopone il ventricolo destro a fare più fatica del normale nel momento in cui pompa sangue ai polmoni. In questo modo il cuore è sottoposto a un carico doppio di lavoro che gli fa esaurire la capacità contrattile fino a sfociare in scompenso cardiaco.
Sarà proprio la pneumologia che dovrà essere rafforzata come logistica per fare fronte a queste nuove turbolenze a medio lungo termine, chiosa il professor Corsico a un certo punto dell’intervista. Il riferimento è a queste patologie croniche che il covid sta lasciando come ricordo in alcuni dei pazienti dimessi dalle pneumologie. Quanti? Presto per dirlo. L’unico antecedente paragonabile è quello della Sars, l’epidemia da coronavirus del 2002-2003. Allora un terzo del pazienti dimessi presentava anomalie a livello polmonare. Ad analisi più approfondite la percentuale crebbe al 75%. Riguardava i pazienti con difficoltà respiratorie croniche, tutti passati per lo stress test delle terapie intensive.