Il rischio di mortalità per malattia cardiovascolare fra i pazienti oncologi è un dato non trascurabile. Si stima che un paziente su dieci che si ammala di cancro muoia per malattia cardiovascolare. È quello che sostengono i ricercatori del Cancer Institute Università della Pennsylvania che hanno analizzato i dati relativi a oltre 3,2 milioni di pazienti posti sotto osservazione, fra il 1973 e il 2012, a seguito di diagnosi oncologica. Nello studio, pubblicato su “European Heart Journal” nel mese di dicembre 2019, s’è visto che il 38% del totale di questi pazienti è morto di cancro e l’11% di malattia cardiovascolare. Fra le morti più frequenti, quelle per infarto (76%). Inoltre, i decessi di origine cardiovascolare sono apparsi prevalenti nel primo anno dalla diagnosi, durante la somministrazione delle cure anticancro. Non a caso si parla di cardiotossicità per questi trattamenti come chemio e radio terapia che tuttavia, al momento, restano dei presidi irrinunciabili per la guarigione dal tumore.
Accanto alla tossicità dei trattamenti, i ricercatori presuppongono la contiguità con stili di vita favorenti la comparsa e la recrudescenza dei classici sintomi dannosi per cuore e arterie: ipertensione, ipercolesterolemia, diabete. Inoltre, i decessi sono stati statisticamente più ricorrenti fra chi aveva meno di 35 anni d’età. Infine, i tumori più frequenti nel decesso per cause cardiovascolari sarebbero il cancro alla prostata, alla vescica e al seno. Per esempio, tra le donne affette da cancro al seno e d’età superiore ai 50 anni ne muoiono più di malattie cardiovascolari che di recidiva tumorale.
Ma quello da cui questo studio mette in guardia, invitando a non abbassare mai la guardia, è che la malattia e poi la morte per cause cardiache possono manifestarsi anche fra i cosiddetti pazienti prevalenti. Si tratta del numero crescente di soggetti che sopravvivono alla diagnosi di cancro grazie all’affinamento delle terapie oncologiche. Secondo gli esperti, grazie a un approccio multidisciplinare, ovvero se l’oncologo lavora in accordo con il cardiologo, adottando un approccio non proprio morbido contro i fattori di rischio cardiovascolare, morbilità e mortalità si possono quanto meno ridurre anche fra i prevalenti. Intervenire con una robusta inversione di rotta contro ipertensione, ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia e diabete, così come intervenire precocemente nella diagnosi di malattia valvolare o di altra cardiopatia, dalle aritmie ai problemi cardioembolici non ancora diagnosticati, sono passi essenziali per ridurre i danni cardiovascolari collegati ai trattamenti oncologici. Più facile a dirsi che a farsi. Mentre si è concentrati ad aggredire il cancro, sembra che tutto il resto debba passare in secondo piano. Mettici anche il fatto che le normali tecniche ecocardiografiche in un uso in molti ospedali non sono in grado di diagnosticare precocemente il danno cardiaco nei pazienti oncologici. Per farlo serve andare in profondità con esami più sofisticati (come la cardio TAC) che data l’emergenza del tumore, nella prassi normale vengono di regola lasciati cadere in secondo piano.
Un altro aspetto che fa della cardioncologia un fronte aperto, è che gli effetti cardiaci delle terapie antimorali colpiscono pazienti sempre più compromessi da un punto di vista clinico a causa dell’invecchiamento generalizzato della popolazione. Ragione per cui, un numero sempre maggiore di pazienti oncologici arriva alla diagnosi oncologica con sintomi e patologie cardiovascolari ancora silenti.
Un dato, questo, che non fa che rafforzare i cultori della materia che la cardioncologia sia un approccio al problema da prendere molto sul serio. E fortunatamente in Italia qualcosa in questa direzione si muove. Una delle eccellenze italiane in tema di oncologia, ovvero l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (IEO), stando quanto si legge sul loro sito istituzionale, vanta addirittura primati invidiabili. Stando a una notizia non proprio recente (2016), in base ai risultati di uno studio dell’Istituto fondato da Umberto Veronesi e pubblicati in una della riviste oncologiche delle più prestigiose, viene loro riconosciuto un vero primato in cardioncologia, in base al quale degli oltre 38mila casi di tumore curati in 10 anni, hanno ottenuto il record di decessi zero per malattie cardiovascolari. E questo grazie a un protocollo finalizzato a «individuare in anticipo, addirittura in fase preclinica, gli eventuali problemi cardiaci, e somministrare farmaci in grado di prevenirli». Si tratta di una valutazione dei biomarcatori cardiaci, (una proteina, la Troponina I, e un ormone, NT-proBNP) e di un ecocardiogramma, in affiancamento a una terapia preventiva a base di Ace-Inibitori e betabloccanti da somministrare ai pazienti che, durante i trattamenti oncologici, presentano un innalzamento dei marker cardiaci.
Un protocollo a parte è dedicato ai pazienti più fragili, quelli che per la gravità delle condizioni sia cardiache sia oncologiche tendono a non essere trattati. Un atteggiamento rinunciatario con loro può decretare il peggio di una o di entrambe le patologie. Per questi pazienti è previsto un percorso nelle terapie seguendoli passo passo sia da parte dell’oncologo che del cardiologo.
Lo stesso approccio, in buona sostanza, è stato messo a punto anche all’Istituto dei Tumori Fondazione Pascale di Napoli, in partnership con il Centro Oncologico più importante al mondo, MD Anderson Cancer Center di Houston, Università del Texas, e la Divisione di Cardiologia dell’Heart Medical Center di Nashville (Tennessee).
Eccellenze italiane a parte, l’auspicio è che la cardioncologia esca dagli orizzonti super specialistici e diventi una prassi consolidata di orientamento anche per i medici internisti, per gli oncologi, per i medici di base e per i ricercatori.