La morte improvvisa nello sport è una sindrome abbreviata con l’acronimo MISe viene definita come la morte che interviene entro un’ora dall’insorgenza dei sintomi acuti, mentre si sta svolgendo la pratica sportiva e in assenza di cause esterne che possano determinare la morte. La lista di campioni che ci hanno lasciato mentre svolgevano la loro normale attività è lunga, dal calciatore Davide Astori nel 2018 a Piermario Morosini nel 2012 a Vigor Bovolenta, pallavolista morto a 37 anni nel bel mezzo di una partita. La morte di queste persone sconvolge proprio perché sono atleti costantemente monitorati anche da un punto di vista della salute. La morte improvvisa da sport sembra avere una predilezione per il sesso maschile, con un rapporto di circa 10:1; si pensa che tale predilezione dipenda dal più alto tasso di partecipazione dell’atleta maschio agli sport competitivi, ma anche al maggior carico di allenamento. Le conoscenze in materia sono ancora da completare, non a caso, purtroppo un 15-20% di decessi restano inspiegati anche quando si effettuano accurate indagini post mortem. Se da un lato è riconosciuto da tutti la necessità di uno screening pre-agonistico dell’atleta al fine di diminuirne al minimo il rischio di MIS, dall’altro non esiste un consenso definitivo sulla strategia di screening da adottare per meglio identificare gli atleti a rischio di morte improvvisa. Oggi è disponibile anche una Guida messa a punto dai medici dello sport per decidere quando è opportuno eseguire uno screening genetico in un atleta, sulla base del sospetto diagnostico di varie cardiomiopatie (come la cardiomiopatia aritmogena o la cardiomiopatia ipertrofica) e canalopatie (come sindrome del QT lungo o sindrome di Brugada).
Recentemente, uno studio pubblicato dall’Università di Padova e condotto dall’équipe del dottor Patrizio Sarto, direttore della Medicina dello Sport dell’Ulss 2, in collaborazione con i professori Domenico Corrado, direttore dell’UOSD Centro genetico per le cardiomiopatie aritmiche e Cardiologia dello sport, e Alessandro Zorzi, del Dipartimento di Scienze toraco-vascolari e Sanità, si è focalizzato proprio sul significato dello screening medico sportivo nella prevenzione delle morti improvvise. Lo studio è stato condotto raccogliendo i dati relativi a 22˙324 atleti trevigiani di età compresa fra i 7 e i 18 anni, che sono stati sottoposti nel corso del periodo di follow-up a 65˙397 valutazioni mediche. Gli atleti inclusi nello studio sono stati presi in carico in giovanissima età e hanno ripetuto la valutazione ogni anno. In questo modo è stata possibile l’identificazione molto precoce delle malattie cardiovascolari a rischio di morte improvvisa durante l’attività sportiva: spesso una sola valutazione non è assolutamente sufficiente a evidenziare la patologia, ed ecco perché risultano fondamentali i controlli successivi. La ripetizione degli screening ha permesso la rilevazione di patologie del muscolo e del sistema elettrico del cuore, di forme aritmiche ventricolari gravi e cardiopatie congenite nei soggetti a rischio di morte improvvisa.
Da questo studio è emerso che ben il 74% delle patologie cardiovascolari a rischio di MIS sono state diagnosticate in bambini e ragazzi con meno di 16 anni. Grazie al modello di screening italiano, sono state potenzialmente salvate le vite di 69 giovani atleti. Su 22˙324 sportivi valutati, uno soltanto è stato colpito da arresto cardiaco durante l’attività sportiva, ed è sopravvissuto grazie alla rianimazione cardiopolmonare con l’uso del defibrillatore. «Questo è un caso molto complesso perché nonostante i tanti esami eseguiti non è stato ancora possibile individuare la causa dell’arresto cardiaco» ha tenuto a precisare in merito il dottor Sarto.
«Altro valore aggiunto dell’attività svolta presso il Centro della Marca, riportato anche nello studio, è che dopo la diagnosi, i giovani sportivi cardiopatici già da diversi anni non vengono abbandonati, ma grazie al programma “Il secondo tempo di Julian Ross”, continuano a essere seguiti dell’équipe di specialisti, che offre loro l’opportunità di avere tutte le informazioni necessarie per continuare in sicurezza l’attività fisico-sportiva più indicata alla loro nuova condizione clinica» afferma ancora il dottor Sarto.
«Un dato che emerge dallo studio – tiene a sottolineare in conclusione il professor Zorzi – è il ruolo fondamentale della prova da sforzo nella valutazione medico-sportiva. In Italia, la prova da sforzo viene eseguita sempre durante la visita medico-sportiva mentre all’estero di solito ci si ferma all’ECG a riposo. Nel nostro studio si dimostra che la prova da sforzo, particolarmente per la valutazione delle aritmie, ha consentito di sospettare una patologia cardiaca in diversi giovani sportivi con ECG di base normale e che sarebbero altrimenti sfuggiti. Questo dato sottolinea ulteriormente come il modello italiano di screening non sia secondo a nessuno».