Un libro per ricordarci che le piante sono nostre fedeli alleate, cosa di cui ci scordiamo solo quando ci fa comodo. Prendiamo l’esempio del tè e del caffè, come fa Michael Pollan in “Piante che cambiano la mente”, il libro in oggetto. Tè e caffè sono due tra le bevande più utilizzate al mondo. Il tè lo è dall’Ottocento, quando gli inglesi decidono di coltivarlo in India, a imitazione di quanto accadeva in Cina, dove la pianta è autoctona. L’India allora era una colonia inglese. Oltre ad avere il microclima ideale, il paese che darà i natali a Ghandi poteva essere sfruttato per la manodopera a basso costo. Una combinazione perfetta, giacché le piantagioni di tè di manodopera ne richiedono tanta. Il caffè è originario dell’Etiopia e dapprima si diffonde nel mondo arabo. Nel Settecento diventa di moda a Londra e in altre capitali europee, assurgendo a bevanda degli illuministi per i quali, non essendovi altro primato che quello della ragione, sembra che le proprietà corroboranti del caffè risultino perfette per aiutare le persone a essere vigili e distaccate sia dalle passioni religiose sia da quelle romantiche. Entrambe le bevande contengono caffeina, una sostanza di quelle che “cambiano la mente”. La caffeina è in grado di mantenere alta l’attenzione e far lavorare di più le persone, grazie alla migliore concentrazione mentale che favorisce. Il tè nell’Ottocento soppianta l’alcol e contribuisce a fare dei lavoratori inglesi degli operai e degli impiegati più efficienti. Il che sarà di grande aiuto nella coeva rivoluzione industriale. Il caffè all’inizio è la bevanda delle élite. Balzac ha più volte ricordato che la sua creatività aveva bisogno di un numero imprecisato di caffè quotidiani per reggere il passo con i propositi titanici di raffigurazione della comédie humaine che gli erano propri.
In seguito, dopo che la pianta di caffè la si è fatta germinare in Centroamerica, il consumo del suo frutto e dello zucchero che serve a dolcificarlo assumono dimensioni di massa, al punto che il 70% della tratta degli schiavi dall’Africa alle Antille e poi verso l’America del Sud viene impiegato per la produzione della pianta di caffè e della canna da zucchero. Chissà quanti fra i bevitori di tè e caffè sono a conoscenza dei costi sociali che ci sono voluti per la produzione del tè in India e del caffè nelle Americhe, si chiede Pollan non senza alludere all’enorme amnesia di comodo a cui accennavamo all’inizio.
Ancora oggi tè e caffè sono tra i prodotti più diffusi al mondo. Per accorgersi che gli effetti che producono sull’uomo creano, tra le altre cose, dipendenza come l’eroina e tante altre sostanze psicotrope diverse dall’LSD e da quelle della famiglia degli psichedelici, che invece la dipendenza sono in grado di curarla, bisognerebbe decidere di fare a meno della caffeina. O quanto meno di sperimentare l’astinenza per un certo periodo. È quanto fa Michael Pollan con il caffè, fedele al suo proposito di giornalismo partecipativo che lo spinge a sperimentare in prima persona ciò di cui parla, in questo caso delle sostanze che contengono caffeina a cominciare dal caffè, ovvero dalla bevanda che ne contiene il concentrato maggiore. Tre mesi senza caffè durante i quali ha modo di sperimentare che il suo pensiero è come rallentato, che ha difficoltà a concentrarsi e a lavorare. L’unica nota positiva è che riesce a dormire di più e meglio rispetto a prima.
Un altro esperimento che Michael Pollan fa con le piante è coltivare il papavero da oppio in giardino. Il bello è che questi papaveri sono più diffusi di quello che credeva prima di porsi il problema dei divieti imposti dalla legge americana. Per le autorità come la DEA, chi coltiva papavero da oppio rischia la confisca di tutti i beni e il carcere, se si riesce a dimostrare un qualche collegamento con il consumo e la diffusione dei semi della pianta per scopi che travalicano il giardinaggio. Un’altra contraddizione della società americana, secondo la quale una sostanza diventa pericolosa dal momento in cui viene proibita. In un certo senso è la stessa cosa che accade con il fungo del Peyote e con i decotti ricavati dal cactus San Pedro. Si tratta di sostanze psichedeliche che i nativi americani usano da millenni in un rituale misto fra religione e medicina e che le leggi statunitensi consentono solo a chi fra costoro vuole farne uso in quanto membro della Chiesa dei nativi americani fondata nel frattempo per dare legittimazione di religione allo spiritualismo amerindo. Per chi lo volesse, il libro di Pollan dà conto delle esperienze che egli ha fatto in prima persona anche di queste sostanze. È questa forse la parte in cui la narrazione si fa meno sorprendente e più stucchevole. Un dato di fatto che lo stesso autore ammette, difendendosi, se così si può dire, con l’assunto che gli psichedelici «sono dei profondi maestri dell’ovvio».
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