Soffrire d’insonnia vuol dire esporsi a un rischio significativo di infarto del miocardio (MI). A questa conclusione è giunta una metanalisi appena pubblicata sulla rivista «Clinical Cardiology», che suggerisce di arruolare d’urgenza la perdita di sonno fra i fattori di rischio cardiovascolare modificabili, insieme all’ipertensione, alla dislipidemia, al diabete, all’ipertensione, al tabagismo e all’obesità. A loro dire, il link fra insonnia e infarto è rappresentato dal cosiddetto ormone dello stress, il cortisolo, che aumenta di valore per la perdita delle ore di sonno e in caso di infarto. Il cortisolo è prodotto nel surrene e, in presenza di insonnia, cresce in combinazione con un altro ormone, l’adrenocorticotropo (ACTH), prodotto dall’ipofisi.
L’insonnia è il disturbo del sonno più comune, noto per avere un impatto negativo sulla salute e sulla qualità della vita della popolazione. È caratterizzato dalla presenza di uno dei seguenti tre sintomi: difficoltà a iniziare il sonno, difficoltà a mantenerlo, risveglio precoce e impossibilità a riaddormentarsi. Siccome non è facile da trattare, l’insonnia contribuisce a un significativo onere socioeconomico su scala globale. Tra i molti che ne soffrono – negli Stati Uniti si parla di una prevalenza che oscilla fra il 10 e il 15% della popolazione – si registrano una capacità produttiva ridotta e un assenteismo sul lavoro maggiore.
Il totale dei pazienti considerati in questa metanalisi, mutuati attraverso la disamina di oltre 1˙200 studi osservazionali includenti report caso-controllo e di coorte, con dati sull’incidenza di infarto del miocardio tra gli adulti (≥18 anni) affetti da insonnia, è stata di 1˙184˙256 pazienti, di cui 153˙881 appartenenti al gruppo dei sofferenti d’insonnia, mentre i restanti 1˙030˙375 ascrivibili al gruppo dei casi-controllo. Le apnee ostruttive notturne non sono state incluse nello studio. Per ogni partecipante, era obbligatorio conoscere l’appartenenza di genere, l’indice di massa corporea, se fumatore, la prevalenza in fatto di alcolici e le malattie da cui era affetto dal momento dell’arruolamento in poi. I valori su cui si sono concentrati i ricercatori durante il follow-up, durato in media cinque anni, erano relativi all’incidenza dell’infarto nei due gruppi, la durata del sonno, il cosiddetto DIMS (Disturbance In Maintaining Sleep), le difficoltà di concentrazione mentale e la stanchezza fisica da sonno mancato, la presenza di diabete, ipertensione e iperlipidemia.
Quello che è emerso in maniera chiara è che, fra gli ascrivibili al primo gruppo degli insonni, dormire fino a 5 ore rispetto alle 6-8 considerate ottimali ha rappresentato un rischio maggiore di infarto (un rischio pari al 69% in più di probabilità rispetto al gruppo caso-controllo). Il fatto nuovo è che «la nostra analisi aggregata non ha mostrato alcuna differenza statisticamente significativa tra 5 ore o meno e 9 ore o più di sonno per quanto riguarda l’incidenza di MI» scrivono gli autori nelle conclusioni. Il che significa che, contrariamente a quello che comunemente si crede, chi riesce a dormire 9 ore come minimo, sottopone il proprio cuore allo stesso stress connesso all’aumento del cortisolo e ai danni relativi dei quali si ha conoscenza a livello cardiaco. Mai come nel caso del sonno è possibile dire che i due estremi si toccano. Ovvero che soffrire di insonnia o, al contrario, essere dei dormiglioni adusi al fare “il giro dell’orologio”, rappresenta lo stesso rischio d’infarto per il cuore.
Tra i consigli per correre ai ripari si novera la pratica di una buona igiene del sonno, secondo la quale la stanza da letto deve essere buia, silenziosa e attraversata da una temperatura ottimale. L’imperativo sarebbe quello di entrarvi senza dispositivi elettronici. Tra l’altro, secondo quanto stabilito dall’Accademia Francese di Medicina in uno studio sugli effetti negativi degli schermi negli adolescenti, i LED (diodi a emissione di luce) degli schermi sono mille volte più luminosi delle lampade a incandescenza, e possono quindi essere fototossici per la retina, creando danni permanenti che vanno oltre quelli ascrivibili alla sola perdita di ore di sonno.
Nel complesso, la metanalisi di cui sopra presenta alcune limitazioni, tra cui quella che la maggior parte degli studi considerati si basano su autodichiarazioni dei partecipanti, in risposta a dei questionari valutativi , circa i loro comportamenti in rapporto al sonno, mentre gli attacchi di cuore sono convalidati da referti medici.